9 min letti
23 Jul
LA SECONDA OCCASIONE

Dicono che quando si sta in coma l'anima girovaghi intorno al corpo, come se la coscienza si staccasse dalla materia. In alcuni casi pare si spinga oltre la soglia di quello che, presumibilmente, dovrebbe essere l'aldilà. Dicono si provi una sensazione di benessere indefinibile, molti parlano di una natura con dei colori indescrivibili e di musiche soavi e irriproducibili nella realtà umana. Alcuni vedono i propri cari defunti, angeli, figure religiose o comunque esseri di luce che, a un certo punto, li esortano a tornare indietro. 

Io sono tornata indietro, ma in verità nessuno mi ha esortata a farlo, anche perché non ho visto nessuno e non ho vissuto alcuna esperienza. Ricordo solo sogni vaghi e confusi, inspiegabili a parole umane, allo stesso modo in cui lo sono i sogni che faccio abitualmente quando dormo. L’unica differenza è che stavolta, al risveglio, non mi aspettava un bel caffè caldo, ma un gran cerchio alla testa, flebo attaccate, dolori dappertutto e un corpo che facevo una gran fatica a muovere. «Cosa è accaduto? Perché sono qui?» Domande vaghe e confuse affollavano la mia mente, ma non riuscivo molto a trattenerle, ero troppo stanca. Vidi una figura vestita di verde, sembrava un medico o un'infermiera, non saprei esattamente, mi si avvicinava sempre di più, controllava la flebo, poi il suo sguardo incrociò i miei occhi ancora socchiusi e impastati, che faticavano a metterla a fuoco». «Si è svegliata! Dottoressa presto venga!» Dalle sue parole capii che ero stata in coma o qualcosa del genere, ma non sapevo perché, né da quanto tempo. Ora che ci penso, faticavo a ricordare anche il mio nome. La donna vestita di verde mi sorrise teneramente, io provai a ricambiare, ma non ero certa di esserci riuscita. Sentivo la sua mano appoggiarsi delicatamente sulla mia, a fatica piegavo le mie dita per sfiorarla. Lei ebbe un sobbalzo e le si riempirono gli occhi di lacrime. «Che strano! Di solito ci si abitua a fare certi lavori, ne avrà viste di persone svegliarsi, o altre avere sorti più infauste, dopo un po’ non ci fai più caso, o, almeno, immagino sia così. Ma forse ho sottovalutato l’umanità. Chissà che tipo ero prima di finire in questo letto! Ora che ci penso, non me lo ricordo, però, non so, ho la sensazione di essere una persona un po’ cinica o forse, semplicemente disincantata. Non ho la forza di pensarci ora, ci penserò domani! Un momento, non è mia questa affermazione, ricordo nitidamente la voce squillante di una donna che l’ha pronunciata, ma mi sfugge il contesto!» 

Le domande si susseguivano nella mia testa, mentre, nel frattempo una dottoressa con i capelli grigi arruffati e raccolti a coda mi si avvicinò «Ciao Giulia, bentornata!» All’udire il mio nome, improvvisamente ricordai chi ero: «Giulia Marino,  ho un marito e tre splendidi bambini, Edo, Marica e Alice. Mio marito si chiama Andrea e siamo una famiglia felice, o almeno spero, non lo ricordo in verità.» 

Mi vennero le lacrime al pensiero della mia famiglia e di quanto avrei voluto poter riabbracciare i miei bambini! Un viavai di medici e infermieri affollava la mia stanza. Venivano verso di me, mi scrutavano, controllavano i macchinari. Si muovevano frettolosamente in modo quasi geometrico, come pedine sulla scacchiera, li guardavo e mi chiedevo il perché di tutta quella fretta, «sono qui, non scappo mica dal letto!» mi dicevo. 

Avrei voluto parlare, chiedere dei miei figli, ma la mia voce non rispondeva ai tentativi di farla riemergere. La dottoressa dai capelli grigi mi si avvicinò nuovamente, mi alzò le palpebre, cercava qualcosa nei miei occhi, immagino fosse qualcosa che potesse in qualche modo rivelarle il mio stato di salute. Poi mi accarezzò la testa e mi sorrise. A quel punto sorrisi anche io, stavolta ci ero riuscita, ne ero certa, lo capii dall’emozione che leggevo nei suoi occhi e dalla sua voce che, accompagnando il suo sorriso pronunciò il mio nome. “Giulia….riesci a rispondermi?” Provavo a muovere la testa in segno di approvazione. La mia bocca era quasi priva di salivazione, avrei voluto chiedere della mia famiglia, facevo fatica a muovere le labbra, mi sforzavo e finalmente con un filo di voce riuscii a pronunciare il nome più facile: «Edo». Ero preoccupata, non sapevo se nell’incidente o, Dio sa, cosa mi era capitato, fossero rimasti coinvolti anche i miei figli o mio marito. Il volto sorridente della dottoressa mi rassicurò, «la tua famiglia sta arrivando, li vedrai tutti fra pochissimo». Credo di essermi assopita per una mezz’ora nell’attesa, poi il rumore della porta della stanza mi fece riaprire gli occhi, c’era un giovane con la barba e i capelli ricci, piuttosto lunghetti, occhiali sottili e grandi occhi neri. Mi guardava sorridendo «Mamma!». Ero stupita, il ragazzo aveva un volto familiare ma solo perché mi ricordava Andrea. I miei figli non erano nemmeno adolescenti, perché un uomo sui venticinque anni mi chiamava “mamma”? Ma il ragazzo insistette «mamma, sono Edo!» 

«No, non è possibile, io non so tu chi sia, ma di certo non sei il mio bambino!» pensai. Dietro di lui c’erano due ragazze che mi sorridevano, visibilmente commosse, anche loro dicevano di essere le mie figlie, Marica e Alice.      

Avrei dovuto provare gioia e commozione nel rivedere quei ragazzi, ma invece provavo solo tanta frustrazione, volevo solo riabbracciare i miei bambini e loro invece non c’erano più! I ragazzi si guardarono fra loro, avevano un’aria un po’ preoccupata, ma il medico che era con loro li rassicurò: «è frequente, nei pazienti che restano in coma per tanto tempo, perdere la memoria a breve termine, ci possono volere diversi giorni, settimane, a volte anche mesi per recuperare, ma, non temete, col tempo e la riabilitazione ricorderà.»     

 In serata arrivò Andrea, anche lui con la barba e i capelli più grigi di come li ricordavo. «Quanti anni sono passati?» Gli chiesi con voce flebile. Andrea mi guardò con stupore, ma comprese al volo quello che intendevo. «Anni? Giulia sei stata in coma per 2 mesi!» 

Non comprendevo, era tutto così assurdo! Ma decisi di mettere a tacere la mia confusione e rimandare le mie domande a quando mi sarei ripresa per poter essere in grado di affrontare le risposte.       

«Molto interessante il tuo diario Giulia, peccato tu non abbia continuato a scriverlo.» Anna era la psicologa che mi stava seguendo, ma non quella assegnatami dall’ospedale che si era presa cura di me per tutto il tempo della convalescenza e la riabilitazione. Con lei il mio percorso finì quando tornai a casa e da quel giorno era trascorso un anno. Un anno durante il quale avevo dovuto fare i conti con il grosso buco che separava i miei ricordi dalla mia vita attuale, avevo dovuto imparare a essere la madre di tre adulti, senza aver avuto la minima idea di come fossero stati da adolescenti e ricostruire il rapporto con mio marito, senza sapere se, a parte la mia memoria, qualcosa da ricostruire ci fosse realmente, dovevo fidarmi dei racconti degli altri. Avevo dovuto abituarmi alla mia immagine invecchiata, riflessa nello specchio, rivivere la perdita dei miei genitori e altre persone care, per la cui morte avevo già pianto. Eppure, nonostante il gran peso che tutto ciò aveva  sulla mia psiche, non era questa la ragione principale del mio turbamento.      

Avevo conosciuto Anna un giorno, mentre ero a lavoro, o meglio, mentre con le mie colleghe andavo a rivedere quello che, a quanto pare era stato il luogo in cui avevo lavorato per vent’anni. Una palestra, un centro di discipline olistiche, nel quale, mi dicono, io abbia avuto il ruolo di insegnante di Yoga. Ma, se del resto della mia vita non ricordavo nulla, questa parte la sentivo totalmente estranea al mio essere.  

Anna era una psicologa specializzata  in percorsi alternativi ed era stata appena assunta come insegnante di Mindfulness. Era una ragazza sui trentacinque anni, bionda e minuta, con naso leggermente pronunciato e occhi tondi color verde acqua. Quando arrivammo era in aula con i corsisti, indossava una strana salopette a quadri, tipo scozzese e una t-shirt giallo zafferano. In tutta la palestra c’era un delicato profumo di oli essenziali, luci soffuse, candele profumate e pareti con disegni e mandala rilassanti, che completavano un’atmosfera calda e accogliente. Quando arrivai,  mi salutò calorosamente, spiegandomi che era da poco a Napoli. «Sono della provincia di Bolzano, mi sono laureata in psicologia e mi sono trasferita a Milano, ci sono stata per un po’, lì mi sono avvicinata ai percorsi di Mindfulness e ho cominciato a lavorare nel settore. Mi piaceva tanto ma era come se mi mancasse qualcosa. Poi due anni fa ho fatto una vacanza a Napoli con un’amica e non sono andata più via. È stato amore a prima vista! Napoli è una miniera d’oro per chi, come me, è appassionato di psicologia, perché è una città con innumerevoli volti e sfaccettature, perfetta metafora dell’animo umano!»  

Quelle semplici parole mi fecero decidere, un paio di mesi dopo, di chiederle di seguirmi in un percorso psicologico, ne avevo bisogno perché stavo rischiando di impazzire, la realtà mi era piombata addosso in tutta la sua pesantezza e io non ero preparata ad affrontarla. Nonostante le sue reticenze iniziali, legate all’opportunità di seguire una che presumibilmente sarebbe stata una “collega”, Anna accettò, così cominciarono le nostre sedute.       

«Cosa accadde dopo, Giulia, ti va di raccontarlo?» La voce calda e dolce di Anna, mi esortava a ripercorrere a voce ciò che avevo interrotto nella scrittura del diario. Ciò che Anna non sapeva era che le ragioni che avevano fermato la mia penna erano le stesse che mi trattenevano dal parlarne. Allo stesso modo sapevo che raccontare e razionalizzare sarebbe stato il solo modo per venirne fuori. Non ricordavo nulla del mio percorso di insegnante di yoga, né della teoria, né della pratica, ma forse il mio inconscio sapeva più di quanto la mia mente razionale riusciva a comprendere

Nella mia mente avevano iniziato a riaffiorare i ricordi, ma erano fermi a molti anni prima dell’incidente d’auto in cui ero rimasta coinvolta. I miei figli erano poco più che bambini, ma la mia famiglia, per quello che rammentavo, somigliava poco all’amorevole nido nel quale mi ero ritrovata. I ricordi arrivavano in ordine sparso e a me che ero già così confusa, toccava il compito di ricostruirli, come pezzi di un puzzle. 

Mi nascondevano qualcosa, ne ero certa. Per quanto mi sforzassi, non ricordavo calore, ma solo freddezza, liti, separazione, sì credo mi fossi separata da Andrea, perché ricordo nitidamente un’altra casa in cui abitavo da sola, senza i bambini.  Dello yoga, della scuola e di tutto questo mondo olistico io non ricordavo assolutamente nulla! Come era possibile? Insegnavo lì da anni, facevo un lavoro di quelli che scegli per passione, non certo perché non trovi di meglio. Eppure quell’ambiente mi risultava assolutamente estraneo. Non ricordavo più chi fossi stata prima dell’incidente, ma la sensazione che avevo avuto in ospedale non mi era passata, la donna che ricordavo essere stata era cinica e calcolatrice, non so perché, non avevo la percezione degli eventi, ma delle emozioni sì. Vivevo da sola, separata da mio marito e dai miei figli che credo avessero scelto di vivere con il padre.

«Cosa mi nascondono?» il mio tono severo incrociò lo sguardo interdetto di Anna. «Tu devi aiutarmi Anna, sei l’unica che può farlo! Sei tra le poche persone che frequento, che non può mentirmi perché non conosce i miei familiari e la mia precedente vita, se non per quello che ti ho raccontato io! »      

Anna continuava a non comprendere bene il senso delle mie parole, la sua ingenua freschezza e la sua fiducia incondizionata sulla bontà d’animo altrui, non le consentiva di prendere in considerazione il fatto che qualcuno della mia famiglia mi stesse consapevolmente mentendo.

«Giulia, l’unico modo in cui posso esserti d’aiuto, è stimolandoti a far riaffiorare i tuoi ricordi.» Tacque per qualche secondo, poi riprese «ma tu perché pensi che ti stiano nascondendo qualcosa?»      

 «Perché tutte le emozioni che riguardano il mio passato sono negative, credimi, mi piacerebbe tanto che questa fosse la mia realtà, ma la verità è che non sono affatto una bella persona. Tra i flash che riaffiorano nella mia mente, ci sono i miei figli che piangono e mi urlano “sei cattiva”, mentre io ho in mano una valigia e sto andando via di casa, una casa che, per inciso, non è quella dove viviamo adesso, anche se, a detta della mia famiglia, è sempre stata quella da quando io e Andrea ci siamo sposati. Io mi sento di impazzire!»

Anna mi guardava pensierosa, con l’aria di chi, un po’ per volta sta provando a mettere assieme i pezzi di un puzzle complicato, si mordeva il labbro, picchiettandosi il dito indice sul mento, poi il suo sguardo cambiò improvvisamente, come se le fosse venuto in mente qualcosa, come se fosse vicina a una spiegazione plausibile, ma non disse nulla a riguardo, mi diede solo dei “compiti” per l’incontro successivo.

«Giulia, per la prossima volta desidero che tu metta nero su bianco tutti i ricordi che ti passano per la mente, devi farlo, anche se ti causano dolore, bisogna capire se e in che modo possano essere ricordi reali e, se non lo sono allora da dove saltano fuori, ok?». 

Anna era stata l’unica persona con cui mi ero aperta, a nessuno dei miei familiari avevo parlato della dissonanza tra i miei ricordi e la realtà che avevo trovato al mio risveglio, volevo scoprire se e perché mi mentivano, ma per farlo, dovevo stare al loro gioco. 

Terminata la seduta, sotto il palazzo di Anna trovai Andrea che mi aspettava. Il suo solito sorriso dolce e il suo aspetto pacato avrebbero dovuto rendermi felice, ma a me infastidivano, anche se provavo maldestramente a nasconderglielo. La sua gentilezza, la sua simpatia facevano a cazzotti con i ricordi che pian piano diventavano sempre più vividi e chiari.       

Nei giorni successivi cominciai a mettere in “ordine cronologico” i flash che apparivano nella mia mente. Ci eravamo separati ed ero andata via di casa lasciandogli i bambini,  li avevo abbandonati e loro non vollero più vedermi, così mi buttai nel lavoro, anzi, credo fosse stato proprio il mio lavoro ad allontanarmi dalla mia famiglia. Nei miei ricordi ero stata responsabile marketing in una grande azienda, o qualcosa del genere, trascorrevo più tempo a lavoro che a casa e , durante le ore in cui ero in casa, passavo tantissimo tempo al telefono, per risolvere problemi lavorativi, ero la classica donna in carriera, nulla di più lontano da quello che può essere un’insegnante di Yoga che pratica meditazione tutti i giorni. A tutto questo subbuglio di flashback si aggiungeva il fatto che avevo una gran voglia di sigaretta, ma anche qui, a quanto mi dicevano, non ne avevo mai toccata una.

La mia memoria si fermava in un momento preciso della mia vita e non riusciva ad andare avanti:  ero sola nella mia nuova e lussuosa casa, ero a letto appena sveglia, poi la scena cambiava e c’ero io in piedi con in mano il telefono, dopo poco uscivo di casa frettolosamente, poi buio, nient’altro. Quella voragine in cui erano finiti quindici anni della mia vita doveva essere lì, in quel buio che non riuscivo a illuminare e  mi stava logorando, allo stesso modo in cui lo stavano facendo le mie mille domande. Perché i miei familiari continuano a nascondermi quella parte del mio passato?             

Decisi di seguire il consiglio di Anna e continuai ad annotare sul mio diario tutto quello che ricordavo.

«Giulia, io non penso che ti stiano mentendo, credo che tu cerchi di nascondere a te stessa qualcosa e lo fai creandoti una realtà totalmente diversa dalla tua, lo fai perché per te accettare l tua realtà sarebbe troppo doloroso, allora preferisci nasconderti dietro una vita che vorresti, ma  non è la tua, capisci? L’unico modo per essere libera è accettare la verità, smettere di nasconderla a te stessa e agli altri, sarà certamente doloroso, ma è l’unico modo che hai per trasformare la tua vita!»      

Più Anna parlava, più ero confusa, cosa cercava di dirmi, la realtà che mi causava sofferenza non era quella in cui stavo vivendo, ma esattamente l’opposto, il ricordo di una me che ricordavo solo io e non mi piaceva, questo mi causava sofferenza, il non poter chiedere scusa ai miei figli e a mio marito per averli abbandonati, perché, a quanto pare, questa cosa non era mai accaduta, questo mi faceva stare male! Di cosa parlava Anna allora? Cercai di interromperla per chiedere spiegazioni, ma il suo sguardo, seppur amorevole, divenne improvvisamente severo.     

«Ora basta Giulia, torna dalla tua famiglia e assumiti le tue responsabilità!» Cercai ancora una volta di risponderle che era ciò che avrei voluto fare, ma il fatto che loro ignorassero ciò che io ricordavo essere stata non me lo consentiva. Di nuovo Anna mi fermò: «Smettila di mentire Giulia, torna a casa!»  

Per non impazzire del tutto, mi alzai dalla sedia e con lo sguardo basso e gli occhi pieni di lacrime, feci per andarmene, delusa e convinta a questo punto che se c’era stato un complotto ai miei danni, se la mia famiglia stava facendo di tutto per farmi perdere la sanità mentale, Anna ne era anch’essa complice. La mia scarsa fiducia nella bontà dell’umanità aveva avuto ancora una volta ragione, l’unica persona con cui mi ero sinceramente aperta, si era rivelata anch’essa per quello che era: una meschina complice dei miei familiari, che, magari dietro lauto compenso, cercava di compromettere la mia sanità mentale. Forse stavano approfittando dell’incidente e della mia amnesia per farmi interdire e mettere le mani sui miei soldi. La vita che ricordavo era uno schifo, ma una cosa è certa, ero ricca.      

Mentre andavo via dallo studio, piena di rabbia e con gli occhi a terra, sentii nuovamente la voce di Anna pronunciare il mio nome: «Giulia, a proposito, “Ci penserò domani!”  lo aveva detto Rossella O’Hara.»  La guardai con sguardo, se possibile, ancora più interrogativo di quanto non lo avessi fatto in tutto il tempo del nostro incontro. 

«La frase che hai pensato nel letto di ospedale  e che ricordavi essere stata  pronunciata dalla voce squillante di una donna, era  Rossella O’Hara, alla fine del film -Via col vento-».      

Non ebbi il tempo di chiedermi come  accidenti facesse a sapere a cosa avessi pensato al risveglio dal coma, perché improvvisamente tutto divenne confuso,  uscendo dalla stanza presi un ascensore che, invece di scendere a piano terra, cominciò a muoversi in orizzontale, ruotando in maniera sempre più veloce al punto che il mio corpo era letteralmente attaccato alla parete a specchio, in un vortice sempre più veloce e spaventoso, mentre un suono squillante assordava le mie orecchie.      

Di botto mi trovai seduta nel mio letto, sudata, con il cuore che batteva all’impazzata e la sveglia che continuava a suonare incessantemente, fino a che, con la mano riuscii a spegnerla. Mi guardai intorno e vidi che era la mia casa lussuosa e vuota, quella che avevo descritto ad Anna. Improvvisamente ero piombata nella realtà che ricordavo di aver vissuto. Ero smarrita, tutto mi era apparso così incredibilmente reale e invece si era trattato solo di un sogno, uno di quei sogni vividi e densi di particolari, ma pur sempre un sogno.     

Mi alzai e andai  istintivamente davanti allo specchio, l’immagine riflessa era quella della trentacinquenne che ricordavo. È buffo, ma non riuscivo a capire se di questa cosa provavo gioia o tristezza. Mi sciacquai gli occhi e poi mi diressi in cucina, pensando che qualsiasi cosa fosse accaduta prima, durante e dopo quella notte, una tazza di caffè caldo me la meritavo di certo.     

Sorseggiavo il caffè camminando nella mia casa piena di oggetti di valore, ma incredibilmente fredda. Ricordai il giorno in cui ero “tornata a casa” nel sogno, la festa organizzata da Andrea e i ragazzi, la dolcezza di quella famiglia in cui avevo immaginato di vivere.  Notai che in casa non avevo nemmeno una foto dei miei bambini. Cominciai a riflettere sul senso che quella vita aveva avuto per me fino a quel momento.      

Improvvisamente, tutto quello che per me era stato al primo posto fino ad allora cominciò a perdere di valore. Cosa ne stavo facendo della mia vita? Forse quel sogno aveva qualcosa da dirmi. Non sapevo nemmeno da quale recondito luogo del mio inconscio venivano fuori queste riflessioni, io non ero mai stata il tipo di donna che si faceva domande sul senso della vita, ma una cosa era certa, cominciavo a vedere tutto con occhi diversi, ero sempre io, sapevo perfettamente cosa avevo fatto il giorno prima e cosa mi aspettava in giornata. Il punto però era che, allo stesso modo in cui nel sogno sentivo che quel mondo in cui ero finita non mi apparteneva, ora guardavo la mia vita con lo sguardo “dell’altra Giulia”.     

Una telefonata improvvisa fermò per un attimo il mio flusso di pensieri, era il mio socio, che mi ricordava la riunione che avremmo avuto da lì a poco, voleva ragionare con me sui punti da discutere. Senza rifletterci su, ma con profonda convinzione risposi che quel giorno alla riunione non ci sarei andata e, come se non bastasse, quando lui cominciò a protestare, risposi seccamente «mi dimetto, arrangiatevi!» e riagganciai senza il minimo rimorso. Chiamai Andrea e gli chiesi un appuntamento, gli dissi che mi dispiaceva tanto per come mi ero comportata e che avrei voluto rimediare e se lui non mi avesse più voluta, lo avrei compreso, ma gli chiesi almeno di darmi una seconda occasione con i bambini, sapevo di aver commesso molti errori, ma li amavo tanto. Gli raccontai a grandi linee del sogno che avevo fatto, gli chiesi  fra le lacrime se avesse acconsentito a vedermi in giornata. Andrea era sorpreso e frastornato, ma accettò di vedermi.     

Nel pomeriggio mi preparai e uscii di casa per raggiungere Andrea al bar dove ci eravamo dati appuntamento, andai verso la mia auto con il cuore che andava a mille, temevo che potesse rifiutarmi, del resto ne avrebbe avuto tutte le regioni. Salii in macchina, misi in moto e mi diressi verso la Tangenziale.  

«Non può essere!» Di nuovo confusione mentale, di nuovo buio, niente più auto, né Tangenziale, ero nuovamente sul letto di ospedale, immobile, con la dottoressa dai capelli grigi che mi dice «Bentornata Giulia!», la mia voce flebile che riesce a pronunciare il nome più semplice, «Edo!» 

Dopo poche ore, la porta si aprii e un ragazzino di dieci anni, incurante dei medici e degli infermieri che raccomandavano di fare piano, corse verso di me e piangendo mi abbracciò, appoggiando la sua testolina riccia sul mio petto. Dai miei occhi sgorgarono fiumi di lacrime e, con un filo di voce, sussurrai «Edo, tesoro mio!»

Dicono che quando si sta in coma l'anima girovaghi intorno al corpo, come se la coscienza si staccasse dalla materia. In alcuni casi pare si spinga oltre la soglia di quello che, presumibilmente, dovrebbe essere l'aldilà. Dicono si provi una sensazione di benessere indefinibile, molti parlano di una natura con dei colori indescrivibili e di musiche soavi e irriproducibili nella realtà umana. Alcuni vedono i propri cari defunti, angeli, figure religiose o comunque esseri di luce che, a un certo punto, li esortano a tornare indietro.     

La mia esperienza è stata un po’ sui generis, il mio “Essere di luce” aveva l’aspetto di un’insegnante di Mindfulness, sebbene non avessi idea che il suo mandarmi indietro avesse a che fare con la soglia dell’aldilà e che mi stesse invitando a scegliere quali semi far germogliare nella mia vita. Non avevo idea che mi stesse concedendo un dono prezioso, che chi ha il privilegio di ricevere non dovrebbe mai sprecare: LA SECONDA OCCASIONE.  




Commenti
* L'indirizzo e-mail non verrà pubblicato sul sito Web.